venerdì 29 aprile 2011

Speciale Il linguaggio segreto dei fiori - Ogni fiore ha la sua storia

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Una storia bella ma triste che parla di ABBANDONO, come bello e malinconico è il fiore che ce lo ricorda: l'aquilegia.


LA RUOTA


Carola avvolse il piccolo fagottino nella coperta di lana sgualcita, era la sola cosa calda con cui poteva coprire il piccolo e proteggerlo così dal gelido freddo invernale. Aprì con cautela la porta di legno che dava sul cortile e guardò se in strada ci fosse qualcuno; la via era deserta per via dell’ora tarda e per il vento gelato che sferzava indomito. La sua avventura era cominciata un anno e mezzo prima quando il padrone della casa dove stava a servizio era ritornato dalla guerra. Carola non l’aveva mai visto fino a quel momento anche se le voci sulla sua scaltrezza con le donne lo avevano preceduto; la moglie, invece, era donna pigra e indolente capace solo di lagnarsi con i servi per le cose più futili. Servire in casa De’ Rambaldis non era una cosa piacevole, ma le offriva soldi, benché pochi, e un tetto sotto cui stare.
Carola aveva solo diciassette anni e la vita non le aveva riservato grandi sofferenze, se uno non contava l’essere allontanata da casa per poter alleggerire le magre finanze della famiglia; aveva accettato questo compito con la giusta dose di rassegnazione e oramai si era completamente abituata a vivere lontana dal piccolo paesino dove era nata. Lei era una delle domestiche che si occupava della messa in ordine delle stanze da letto: cambiava la biancheria, accendeva il fuoco nel camino, rassettava i vestiti che i padroni lasciavano in giro e preparava loro il bagno caldo che facevano ogni sera prima di cena.

Era stato durante una delle sue solite mansioni che era incappata nel padrone di casa, da sola. Lui l’aveva squadrata da cima a fondo e poi le era passato accanto sfiorandole la spalla; Carola sapeva che non doveva cadere in simili trappole, ma il suo corpo l’aveva tradita e la leggera peluria che aveva sul braccio si era 
elettrizzata al contatto con l’uomo.
Come proseguirono i loro incontri è presto detto, il signor De’ Rambaldis con astuti pretesti trovava sempre il modo di essere in prossimità delle stanze che erano stata affidate a Carola per essere riordinate. Un giorno, però, il gioco di sguardi e sfioramenti era sfociato in qualcosa di più fisico e carnale. La padrona di casa era via, era andata a trovare la sorella minore che si era ammalata improvvisamente e aveva lasciato la casa ormai da due giorni. Carola stava facendo il solito giro per rassettare il reparto notte dell’antica dimora, ma una volta giunta alla stanza matrimoniale era stata colta alle spalle dallo stesso padrone che, dopo aver prontamente inchiavato la porta, l’aveva stesa sul letto ed era entrato in lei. In un primo momento aveva creduto di voler morire, si sentiva usata come un banale oggetto, eppure in fondo aveva provato un pizzico di voluttà nel sentirsi desiderata.
Da quel giorno divenne la sua amante, non che lei fosse l’unica ad avere le sue attenzioni, sapeva bene che anche fuori le mura del suo palazzo il signor De’ Rambaldis era solito avere le sue avventure, ma questo non le importava. Le piaceva godere di quei momenti e aveva preso a farli capitare più spesso.
Ma come tutte le cose piacevoli, anche questa si spense inesorabilmente. Carola rimase incinta e nascondere il suo segreto divenne la sua attività principale; gli abiti che portava mentre prestava servizio come cameriera non le permisero di andare oltre i primi mesi di gravidanza e inseguito fu costretta a passare, inspiegabilmente per gli altri domestici, nelle cucine. Era stato un abbassamento di ruolo, ma pur di salvare il posto avrebbe tentato qualsiasi cosa; l’unica a sapere cosa le stava succedendo era la vecchia governante. Ne aveva viste così tante quella donna che non si era sentita di abbandonare Carola in mezzo ad una strada.
L’unico patto per la sua protezione e il suo silenzio era che Carola avesse dato via il bambino, non alla sua famiglia, che per altro non l’avrebbe voluto, ma alle suore della Carità del monastero di Santa Caterina. Doveva esporlo.
Nessuno aveva bisogno di un bastardo, tanto meno quella casa; era stato queste dure parole che aveva apostrofato ogni tentativo di Carola di opporsi alla triste sorte che incombeva sul suo bambino.
Passò i mesi e più il ventre cresceva rotondo più le mansioni da svolgere in cucina divennero pesanti, anche il più piccolo movimento era divenuto come spostare macigni. Il padrone intanto era ripartito per i viaggi di affari e si sarebbe scordato presto della servetta con cui aveva passato innumerevoli notti a fare l’amore; all’inizio si era mostrato preoccupato dello spostamento di Carola nei compiti da eseguire, ma appena aveva odorato il motivo di siffatto cambiamento aveva preferito che le cose facessero il loro corso e sparire così per il tempo necessario affinché il suo giocattolo non fosse ritornato utilizzabile.
Sebbene il parto fu doloroso, Carola seppe trattenere le grida di dolore le raspavano lungo la gola e dopo ore di sofferenza poté guardare con muto orgoglio il frutto di quell’amore illecito. Era un maschietto sanissimo, completamente ignaro del destino che lo attendeva.
Il giorno dopo doveva portarlo alla ruota, come promesso.
Quel giorno fu il più bello e il più brutto di tutta la sua vita e quando arrivò la sera e infine la notte, Carola dovette mantenere la parola data.
Strisciando silenziosa lungo i muri delle case, sotto il mantello scuro che si era messa addosso per proteggersi dall’inverno sentiva il respiro caldo di quella fragile creatura; la stringeva al petto come a cercare di fonderla di nuovo con il suo corpo e non doverla così abbandonare alle cure severe delle nere suore.
Salì frettolosamente i gradini che separavano il livello della strada dal portico del monastero, la luna con il suo sottile spicchio emanava una luce quasi inesistente. Arrivò all’angolo sinistro del porticato dove era situata la ruota, Carola sentiva il cuore frantumarsi e cadere pezzo dopo pezzo; aprì lentamente lo sportello e posizionò con delicatezza il piccolo bambino avvolto della coperta. L’ho guardò per qualche secondo a imprimere per sempre nell’anima l’immagine di suo figlio. Chiuse lo sportello e la ruota girò portando il bimbo dall’altra parte del muro; con la fronte si era appoggiata alla maniglia e un pianto muto iniziò a scorrere sulle guance arrossate dal freddo.
Per sempre. Aveva perduto suo figlio per sempre.
Con voce rotta mormorò un fugace Addio, poi suonò la campanella e scappò via. 

2 commenti:

  1. L'ultima parte, da "Quel giorno fu il più bello e il più brutto..." mi è piaciuta molto e mi è risultata convincente, la prima parte troppo frettolosa, come se non ci fosse il tempo per spiegare bene cos'era accaduto prima. Ma capisco ovviamente che un racconto non può dilungarsi quanto un romanzo!

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  2. Sì, effettivamente non ho ben descritto cosa accade. Il lasso temporale che ho lasciato, in un certo senso, scoperto è bello grande! In un romanzo si ha molto più tempo...mi sa che è ora che mi metta a scrivere sul serio, ho parecchie idee che frullano in testa

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